#Veneto #Ambiente – LAGO DI FIMON: ANFIBI STERMINATI A MIGLIAIA DALLE BICICLETTE – di Gianni Sartori

Vittime dell’indifferenza, dell’edonismo consumista e dell’antropocentrismo

A ormai dieci giorni dalla strage di rospi neometamorfosati maciullati a migliaia intorno al Lago di Fimon (4 maggio 2024) è possibile porre qualche considerazione di “carattere generale”?

Per andare oltre alla pur sacrosanta – ma sterile temo – indignazione.

Intanto sulla situazione del lago stesso, forse impropriamente definito “perla dei Berici”. In realtà, più che un laghetto in “stile alpino” andrebbe classificato come zona umida e proprio per questo altamente degna di ampia protezione. Invece negli ultimi anni, con la scusa della solita “valorizzazione” (?!?), ha subito interventi di antropizzazione quantomeno deleteri se non proprio devastanti. Come lo spostamento forzato (e la conseguente quasi definitiva scomparsa) del canneto dalle rive sottostanti Lapio a quelle sovrastate da Villabalzana. Oppure con la realizzazione di decine di avamposti per pescatori e la presenza di natanti di vario genere. Con i risultati che sappiamo. Sempre più rari gli avvistamenti di Tarabusino (Ixobrychus minutus, negli anni ottanta presente con oltre una ventina di coppie nidificanti), Pendolino (Remiz pendulinus) e Cannareccione (Acrocephalus arundinaceus). Magra consolazione quella di poterli ammirare nelle immagini delle tabelle didattiche.

A tale proposito riprendo, testualmente, questo articolo (“MA E’ IL LAGO DI FIMON O L’IDROSCALO?”) che avevo scritto per il bollettino del circolo socialdemocratico di Noventa Vicentina. In “epoca non sospetta”, nel luglio 2011, dopo un tragico episodio in cui aveva perso la vita per annegamento un turista in barca:

“Quando le conseguenze (gli “effetti collaterali”) delle nostre azioni ricadono sugli altri sarebbe forse il caso di fermarsi a riflettere. Il tragico episodio accaduto recentemente al lago di Fimon ripropone la questionedel rapporto con il mondo naturale nella società del consumismo e dello “spettacolo”.

Il Progetto “Riqualificazione ambientale del lago di Fimon”, fiore all’occhiello del Comune di Arcugnano e della provincia di Vicenza, si è rivelato una presa in giro che ha portato al totale “cambiamento d’uso” di questo luogo a pochi chilometri dalla città, rimasto relativamente integro fino a pochi anni fa.

Nel volume di Girardi e Mezzalira “Il lago e le valli di Fimon” (1991) si racconta il lago come uno spazio di eccezionale interesse ecologico e naturalistico per il paesaggio e la varietà della flora e della fauna, di grande importanza storica e paleontologica.

Per qualche motivo che possiamo soltanto immaginare si è voluto “valorizzare” questo territorio delicato. Oggi (2011) questo termine è diventato sinonimo di “stravolgimento”: da ambiente naturale di pregio a ambiente ricreativo e turistico a uso di velisti e pescatori.

I 32 box attrezzati per la pesca sportiva per gare singole e a coppie hanno proposto una monocoltura di tipo invasivo. Il canneto, trapiantato da ovest a est, è praticamente distrutto. Aprendo di fatto il lago alle escursioni di natanti di ogni genere, anche nelle ore notturne. La pesca praticata dai locali in passato aveva ben altra consapevolezza e frequenza.

Si è voluto entrare in questo angolo di Colli Berici come un elefante in una cristalleria, progettando interventi non compatibili con la biodiversità del luogo, trasformandolo in un qualsiasi idroscalo.

Tutti conosciamo la pericolosità delle sue acque scure, vere trappole per chi inavvertitamente vi scivola. Acque con cui non si dovrebbe scherzare, ma l’atmosfera da parco giochi, le bellezze in costume sdraiate sul pontile (quello per consentire la pesca ai disabili, in teoria), i bambini vocianti mentre intrappolano girini nelle bottiglie, possono ingannare sulla reale natura del luogo e confonderlo con una piscina.

Con questi interventi è stato incentivato un approccio superficiale, di facile consumo, senza responsabilità per le conseguenze.

Al momento, tarabusino e pendolino con ogni probabilità non nidificano più in questo ambiente. Altri uccelli non nidificanti ma presenti in passato, sembrano o quasi scomparsi (come lo smergo e lo svasso, già segnalati dalla Lipu) o comunque molto meno frequenti (come la folaga).

Se organismi internazionali affermano che la diminuzione del numero delle specie procede ad un ritmo mille volte più rapido che nel passato (la famosa “lista rossa” a rischio di estinzione), noi sappiamo che una delle cause più evidenti è la trasformazione degli habitat, legata alla crescita esorbitante delle attività umane, anche quelle del tempo “libero”.

Rinnovando quindi la preoccupazione per il futuro dei Colli Berici, intesi come ambiente naturale e non come oggetto di speculazione, anche se fatta in nome della “valorizzazione” dell’ambiente. La Natura si valorizza benissimo da sola.

(Gianni Sartori, luglio 2011)”

Quindi possiamo dire che – date le premesse elencate – sarebbe stata una facile profezia prevedere quanto è avvenuto il 4 maggio 2024.

Ovviamente poteva andare perfino peggio. All’epoca c’era chi proponeva, in nome di una malintesa “promozione turistica”, oltre alla realizzazione di altri chioschi e punti ristoro, quella di “giochi d’acqua” (scivoli, trampolini…confondendolo forse con il laghetto di Lavarone). Insomma, correva veramente il rischio di diventare l’equivalente vicentino dell’Idroscalo.

Detto questo andrebbe considerato anche un altro aspetto. Da qualche anno i Colli Berici sono diventati la location di eventi di vario genere (marce podistiche, gare ciclistiche…) e sui sentieri (spesso violentemente allargati con motoseghe e decespugliatori) sfrecciano bolidi di vario ordine e grado. Oltre alle moto (mai del tutto scomparse nonostante i divieti), biciclette di vario genere (magari elettriche – ancora più pesanti) che oltre a scavare il terreno (trasformando i sentieri in solchi più o meno profondi) schiacciano impietosamente salamandre, orbettini e altri piccoli animali (documentabile). 

Generalmente in “modica quantità”, ma stavolta su scala industriale dato che si è infierito sulle inermi creature intente ad abbandonare il lago per migrare verso le zone boscose circostanti. Un fenomeno ricorrente (del tutto naturale, previsto e prevedibile) che purtroppo ha coinciso con una manifestazione ciclistica (autorizzata dalla Provincia). Tale evento avrebbe dovuto svolgersi domenica 5 maggio, ma è stata preceduta da un “sopraluogo” nella giornata di sabato. Per cui il 4 maggio le biciclette (in ricognizione sul percorso presumo) e i quod di supporto (ma si può ?!?) ne hanno fatto strage.

Nel comunicato – purtroppo intempestivo – di un gruppo ambientalista si legge che “la decisione della manifestazione ciclistica entra in contrasto con l’autorizzazione, fornita al contempo al gruppo SOS Anfibi Vicenza, per chiudere un tratto di strada circumlacuale al fine di effettuare interventi di salvataggio degli anfibi”. Soltanto l’encomiabile intervento in extremis delle Guardie Zoofile ENPA ha consentito la modifica del percorso della gara prevista per domenica 5 maggio. Evitando ulteriori uccisioni dei rospetti migranti. Tuttavia i volontari ENPA venivano allertati soltanto la sera prima, quando ormai un danno irreparabile era già avvenuto. Da segnalare l’assoluta mancanza di tempismo, oltre che di sensibilità, nel programmare tali eventi (di cui comunque non si sente la necessità). E’ questo il periodo dell’anno in cui – oltre all’uscita dal lago dei giovani anfibi – nidificano e nascono gli uccelli selvatici qui ancora presenti.

Fatte le debite proporzioni (le vittime erano in minor numero, ma trattandosi di adulti in fase riproduttiva il bilancio era stato almeno equiparabile) mi ha ricordato quanto accadde una quindicina di anni fa a Longare. Quando centinaia di rospi, scesi dai boschi circostanti, per raggiungere il canale Bisato dove potersi riprodurre, cominciarono ad attraversare la strada conosciuta come Riviera Berica. 

Anche se in questo caso (una “tragica fatalità”) forse c’erano delle le attenuanti.

Probabilmente una conseguenza imprevista degli invasivi lavori di ripristino (con posa di pietre) delle rive del canale nel tratto in prossimità di “Pluto”, dove il Bisato fuoriesce da una galleria arrivando dalla Val Bugano. Mentre prima, sempre presumibilmente, la maggior parte andava a deporre le uova direttamente nel tratto tra il monte e la strada, trovandolo ora impraticabile presero a raggiungerlo più avanti, oltre la strada alquanto frequentata anche di notte.

Per i due-tre anni successivi (almeno finché il fenomeno era durato), all’epoca della migrazione, decine di volontari presero a raccoglierli in tempo trasportandoli fino al canale. Impedendo così che finissero spiaccicati dalle ruote impietose. Uno spettacolo confortante ammirare questi animali, in apparenza goffi, nuotare agilmente e velocemente appena posti in acqua.

Parlando dei batraci, ne va sottolineato il ruolo fondamentale come equilibratori ecologici degli habitat in cui vivono (in genere già compromessi dall’antropizzazione). 

Oltre che essenziali per la catena alimentare (per gli studiosi sarebbero i vertebrati terrestri più abbondanti per biomassa), risultano fondamentali per il controllo delle zanzare. Per cui non si può escludere che anche il ritorno della malaria (e di altro) possa essere in relazione con la loro costante diminuzione.

Tra quelli nostrani, sui Berici ritengo sia a rischio l’ululone dal ventre giallo (per l’inquinamento, soprattutto – presumo – per i trattamenti nei vigneti). Ancora non risulta, ma in futuro potrebbe avere effetti devastanti l’ulteriore diffusione della chitridiomicosi che a livello planetario ha già causato danni ingenti a svariate popolazioni di anfibi. Si parla ormai dell’estinzione di almeno 90 specie, in Germania e Olanda starebbe provocando la quasi scomparsa delle salamandre.

Per rane e rospi il pericolo proviene dal fungo Batrachochytrium dendrobatidis, per le salamandre dal Batrachochytrium salamandrivorans  di origine australiana (precisamente dal Queensland dove ha sterminato la Ranoidea rheocola), forse a causa del malaugurato commercio di anfibi esoticiper gli acquari.

Da non sottovalutare poi le microplastiche che evidentemente non inquinano solo gli ecosistemi marini. Tracce ne sono state rinvenute nello stomaco di alcuni anfibi come il Triturus Carnifex (in aree appenniniche, addirittura nei Parchi del Gran Sasso e Monti della Laga).

La pesca sportiva in alcuni specchi d’acqua appenninici starebbe invece mettendo a rischio la sopravvivenza della rarissima salamandra di Savi (i pesci qui introdotti ne divorano le larve).

Un’altra salamandrina, la “vicentina” e ancora più rara Salamandra atra aurorae, ha rischiato l’estinzione totale a causa dell’esbosco in periodo estivo nelle ristrette aree dell’Altopiano dove sopravvive(va?). Magari sarebbe bastato (meglio che niente) operare come nel Trentino dove alcune autorità comunali avevano imposto l’esbosco nel tardo periodo invernale, con il sottobosco ancora ghiacciato e le salamandre in letargo. Ma nel vicentino pare siano prevalse la logica commerciale e le esigenze delle aziende forestali.

Considerazione finale. Ormai di gente che “ama immergersi nella natura” non se ne può più. Meglio sarebbe cercare di riportarla là dove è stata estromessa. Per esempio piantando alberi nelle aree degradate (nelle zone industriali dismesse, nelle cave abbandonate…). E smettere di scendere a rotta di collo per qualche pendio o piantare spit sulle maltrattate pareti di qualche “falesia” (v. Lumignano). Percorrere i sentieri in silenzio e a piedi, se non proprio in solitudine almeno in gruppi esigui. Evitare di frequentare le grotte quando i pipistrelli sono in letargo e non recidere alberi e arbusti (penso alle roverelle e ai ginepri sradicati in questi giorni per allargare un sentiero nei Berici meridionali). 

D’altra parte capisco che per qualcuno è necessario “sfogarsi”.

Cosa mai posso dire allora?

Sfogatevi pure, ma almeno non venite a tediarci blaterando del vostro “amore per la Natura”. Dubito molto che sia ricambiato.

Gianni Sartori

#Kurdistan #Rifugiati – ALTRE FAMIGLIE LASCIANO IL CAMPO DI AL-HOL – di Gianni Sartori

Sono di origine siriana e irachena la maggior parte di coloro che hanno potuto lasciare l’inferno di al-Hol. Grazie all’AANES a cui non corrisponde un analogo impegno da parte della comunità internazionale

Nel bene e nel male il campo di Al-Hol continua a tener banco.

E’ di oggi la notizia che per l’8 maggio (stando alle dichiarazioni della direzione dell’accampamento) è stato organizzato il rimpatrio – ovviamente volontario – di un gran numero di famiglie (una settantina, oltre 254 persone) originarie della città siriana di Deir ez-Zor.

Sempre la direzione segnala che attualmente in quello che è considerato “uno dei luoghi più pericolosi del mondo” (sorge nei pressi di Hesekê, in Siria) vivono 18.530 rifugiati iracheni, 16.779 siriani, 6.461 stranieri (non meglio definiti) e una decina di persone non identificate.

Tra i precedenti più significativi (la notizia risaliva al 10 marzo 2024) quello di altre 622 persone (circa 160 famiglie, in questo caso irachene) che erano potute tornare alle loro case sotto la protezione speciale delle Forze di Sicurezza Interna. Un risultato ottenuto grazie alla cooperazione tra l’Amministrazione Autonoma Democratica del Nord e dell’Est della Siria (AANES), il Comitato per la Sicurezza e il Comitato della Migrazione e dei Migranti della Camera dei rappresentati irachena.

Come è noto la maggioranza delle persone presenti nel campo proviene dalla Siria e dall’Iraq. Altri dall’Europa, dal Caucaso, dal Nord Africa o dal Medio Oriente. Circa la metà sarebbe costituita da minorenni, bambini e ragazzi che rischiano di venir indottrinati dalle donne islamiste (si calcola siano alcune migliaia quelle rimaste ancora legate all’Isis).

Ugualmente alla fine del dicembre 2023 altre famiglie di origine irachena (per la precisione 173, circa 660 persone) avevano potuto lasciare il campo – ugualmente accompagnate dalle Forze di Sicurezza – per installarsi in un nuovo accampamento a Meda (nella provincia irachena di Mosul). Tra di loro molte donne e bambini. Va apprezzato lo sforzo dell’AANES per risolvere il problema, soprattutto pensando alla mancanza di collaborazione della comunità internazionale.

Gianni Sartori

#Veneto #Ambiente – NELL’ALTO VICENTINO GLI “ANNI DI PIOMBO” SEMBRANO NON DOVER FINIRE MAI… – di Gianni Sartori

Evidentemente la fine dell’impero romano non ha insegnato nulla.

Eppure è (quasi) universalmente noto come tra i molteplici fattori che ne determinarono la caduta non fosse del tutto secondaria l’inveterata abitudine di servirsi dell’acetato di piombo per “insaporire”, addolcire il vino. Soprattutto tra le classi “alte”. Oltre ai casi da manuale degli “imperatori folli” (se pur a diversa intensità e con benefico d’inventario: Caligola, Nerone, Commodo, Domiziano, Tiberio, Claudio…) pare che la pazzia indotta dal saturnismo (avvelenamento da piombo) avesse irreparabilmente colpito anche un buon numero di romani nobili e benestanti, la classe dirigente diciamo.

A cui andrebbe aggiunta l’aggravante dell’utilizzo del piombo per tubature, otri e pentole.

Tale avvelenamento assumendo caratteri di cronicità comportava – e comporta – anemia, stipsi, dolori addominali, meteorismo, ipertensione, problemi renali, problemi alla struttura ossea e – nei bambini – ritardo mentale.

Senza escludere il rischio di malattie neurovegetative e l’insorgere di tumori.

Ai nostri giorni le fonti di possibile inquinamento da piombo dell’organismo sarebbero soprattutto i cereali, le verdure, l’acqua del rubinetto. Per inciso, i più esposti al rischio potrebbero essere proprio i benemeriti vegetariani. Il cui contributo alla salute del pianeta è indiscutibile, ma che rischiano di assorbirne in maggior quantità dato che il piombo prevale nelle diete acide e in quelle a base prevalente di carboidrati e scarse di proteine. Quanto di dice che al mondo non c’è proprio giustizia!

Detto ciò, esistono numerose variabili, ovviamente. E le cose possono cambiare radicalmente da zona a zona. Per esempio in certe aree della pedemontana veneta in generale e di quella vicentina in particolare (zone di passo migratorio, valichi) la situazione appare piuttosto allarmante. A causa del piombo qui sparso nella cosiddetta “attività venatoria” volgarmente conosciuta come caccia.

Analogamente (fatte le debite proporzioni) al caso dell’uranio impoverito, possiamo dire che “le armi uccidono anche quando hanno smesso di sparare”.

Come è stato ampiamente dimostrato e denunciato nellamostra del febbraio 2024 realizzata dal Comune di Brescia: “IL VELENO DOPO LO SPARO – L’avvelenamento da piombo negli uccelli selvatici”.

Ulteriori conferme dall’omonimo seminario “Il veleno dopo lo sparo” che si è tenuto sempre a Brescia presso il Comando della Polizia Provinciale il giorno 27 aprile 2024 *. Dove, tra le tante cose, veniva denunciato che il 60 per cento di tutti i Rapaci italiani sono intossicati da piombo in modo più o meno grave.

In tale ambito risulta purtroppo ancora tragicamente attuale un documento (presentato anche a Brescia) risalente ormai a quasi dieci anni fa e prodotto dal Coordinamento Protezionista del Veneto.

Il Cpv, costituito da una dozzina di associazioni ambientaliste e animaliste (LAV, ENPA, LAC, UNA, WWF, OIPA, LIPU…) era nato fondamentalmente per “fronteggiare la politica di liberalizzazione dell’attività venatoria (vedi cacce in deroga, cacce da capanno, da altane…nda) portata avanti dalla Regione Veneto”. Tra l’altro recentemente riesumata con la proposta di poter sparare anche a peppole, fringuelli, storni…

Dalla lettura dei calcoli riportati in “CONSIDERAZIONI SULL’INQUINAMENTO DA PIOMBO NELLA FASCIA PEDEMONTANA VICENTINA” del gennaio 2015, si apprende con approssimazione molto verosimile “quanto piombo è stato sparso attraverso l’attività venatoria sulle colline e nelle valli della pedemontana vicentina”.

Località che essendo “situate sulle rotte di migrazione dell’avifauna, da sempre sono meta di un grandissimo numero di cacciatori”.

Le quantità considerate nel documento si riferivano soltanto al periodo dopo il 1960, quando la caccia era diventata un fenomeno di massa.

Ossia era stato considerato “un periodo di 54 anni (e dopo altri nove, 63 in totale, la situazione può essere soltanto peggiorata nda) ed un numero di cacciatori medio di 20.000 all’anno, anche se negli anni ’70 ed ’80 questo numero era molto superiore”.

Stimando (per difetto) che ogni cacciatore avesse sparato 400 cartucce, ognuna contenente 33 grammi di piombo. Fermo restando che ancora nel 1968 l’Associazione “Libera caccia” aveva effettuato un sondaggio su 176.890 cacciatori, (pari all’11,8% del totale di quell’anno) e la media aveva sparato 830 cartucce.

Ossia più del doppio delle 400 prese in considerazione nei calcoli del documento.

Quindi risultava che: “20.000 cacciatori x 54 anni x 400 cartucce x 33 grammi/cartuccia = 14.256.000.000 grammi, pari a 14.256 tonnellate, corrispondenti al contenuto di 4 treni merci completi, 810 autobetoniere a 4 assi, circa 18.000 automobili utilitarie”.

Il Territorio sul quale è possibile esercitare la caccia a Vicenza è di circa 250.000 ettari. All’epoca (come riporta il documento del 2015, ma nel frattempo non è cambiato molto sostanzialmente) solamente in tale provincia veneta non veniva rispettata la Legge 157 del 1992 che imporrebbe di destinare a Parco (o comunque sottrarre alla caccia) almeno il 20 per cento del territorio. Si poteva quindi agevolmente calcolare che questa attività venisse praticata su circa 225.000 ettari.

Alcune zone però non risultano abbastanza “interessanti” dal punto di vista del cacciatore. Mentre altre, troppo vicine alle case o alle strade, sarebbero interdette. Almeno in teoria: abbiamo tutti fatto esperienza dei pallini che piovono in giardino o sul pergolo (o – peggio ancora direttamente sul pargolo).

Gran parte di tale attività si mantiene tuttora sulle colline della fascia pedemontana, specialmente durante le migrazioni. Per cui si poteva legittimamente stimare che “circa il 65 per cento dei cacciatori vicentini abbiano cacciato nella fascia pedemontana, che rappresenta circa il 30% dell’area provinciale”.

Si ha quindi che “14.256 tonnellate x 65 % = 9.266,4 tonnellate pari a 9.266.400 kg di piombo sono stati sparsi sul 30 % di 225.000 ettari, cioè su 67.500 ettari”.

La “densità” del piombo sparso sul suolo era quindi di “9.266.400 kg : 67.500 ettari, cioè 137,28 kg/ha, pari a 13,72 gr/mq.”.

Questo calcolo però – si precisava nel documento – ha un limite ben preciso: “questa è la densità media del piombo su tutta l’area considerata, mentre è evidente a tutti che i crinali, per una fascia di poche decine di metri di larghezza, sono interessati da una attività enormemente più intensa, rispetto ad esempio ai versanti collinari, od ancor più, al fondo delle valli”.

Da cui si deduce che molto probabilmente “nelle zone a più alta concentrazione di cacciatori i valori sopra enunciati debbano essere moltiplicati per decine o per centinaia di volte”.

Ricordo che i tecnici quando setacciano il terreno e prelevano i campioni da analizzare tolgono preventivamente i pallini per cui le concentrazioni si riferiscono solamente al piombo disciolto nel terreno, nell’humus acido.

Per il Decreto Legislativo N° 152 del 3 aprile 2006 (che considera le concentrazioni massime degli inquinanti nel terreno, misurato come sostanza secca, senza calcolare quindi il peso dell’umidità) le concentrazioni massime ammesse nei terreni (distinguendo i terreni agricoli, a verde pubblico e privato da quelli ad uso commerciale ed industriale) devono rientrare in limiti ben precisi.

Quello di 100 milligrammi per ogni chilogrammo per i terreni agricoli e dieci volte di più, cioè 1000 milligrammi, per chilogrammo per le aree commerciali ed industriali.

Oltre tali limiti il D.Lgs 152 impone la bonifica dell’area che viene considerata contaminata e quindi nociva per la salute.

Ovviamente la caccia può essere esercitata solamentenelle aree verdi ed agricole, dove il limite viene fissato in 100 milligrammi per ogni chilogrammo di terreno (secco).

Inoltre, sempre in “CONSIDERAZIONI SULL’INQUINAMENTO DA PIOMBO NELLA FASCIA PEDEMONTANA VICENTINA”, si sottolineava che “tra gli studiosi è opinione comune che i pallini si fermino nei primi uno o due centimetri di profondità del suolo, perché le radici e la densità stessa del terreno impediscono che si disperdano più in profondità. Si ritiene che i pallini non possano comunque mai scendere oltre i cinque centimetri. Qui il suolo è prevalentemente vegetale, e quindi acido, e questi acidi deboli riescono a disciogliere lentamente il piombo facendolo assorbire dalle radici delle piante, da dove entra nel ciclo dell’agricoltura, della zootecnia e della viticoltura. Una piccola frazione scende ad inquinare le falde acquifere. Se ipotizziamo che i pallini si fermino nel primo centimetro, calcolato che il terreno vegetale (secco) ha un peso di 1.450 kg al metro cubo, abbiamo che i 13,72 grammi di piombo al metro quadrato sono contenuti in una massa di 14,5 kg di terreno, quindi con una concentrazione di 946 mg/kg, cioè 9,46 volte di più del limite ammesso, mentre se ammettiamo che si disperdano nei primi due centimetri, abbiamo 473,10 mg/kg, cioè 4,73 volte di più dei limiti di legge”.

Facile conclusione: è alquanto probabile che molti dei terreni della fascia pedemontana vicentina siano da ritenere inquinati in modo gravissimo, tanto da dover “rendere necessaria, a termini di legge, la asportazione dello strato superficiale di quelli più avvelenati, e la bonifica dell’intera area pedemontana”.

Con una nota finale paradossale (per non dire allucinante).

Proprio alcuni di quei terreni risultano essere gli stessi dellaproduzionedi svariate “eccellenze” alimentari del Vicentino: vino, patate, latte e formaggi.

Nel documento si riportava il caso di una Latteria Sociale della Valle del Chiampo che produce un formaggio “a pasta morbida” alquanto rinomato. L’area del pascolo delle mucche si troverebbe sul crinale tra la Valle dell’Agno e quella del Chiampo. Storicamente impestato di roccoli, altane e capanni. Oltre che da cacciatori vaganti.

“Le nostre analisi sulla concentrazione del piombo – spiegano gli autori del documento – sono state effettuate su campioni prelevati in queste zone”.

Raccontando poi di aver saputo dai soci di tale latteria che “è capitato che il latte non cagliasse perché c’era così tanto piombo nel latte da impedire la proliferazione dei batteri necessari a far cagliare il latte”.

All’epoca quelle analisi erano state inviate all’Assessorato all’Ambientedella Provincia di Vicenza.

“Se le analisi trovassero conferma bisognerebbe provvedere”, fu la lapidaria risposta.

Ma in seguito – ne dubitavate ? – la cosa sarebbe rimasta lì. E il piombo pure evidentemente.

Come direbbe qualcuno “ragionateci sopra”.

Gianni Sartori

*nota 1: Purtroppo (per inderogabili impegni) senza la presenza di Alessandro Andreotti, autore con Fabrizio Borghesi della pubblicazione dell’ISPRA del 2012 (Istituto Superiore per la Ricerca Ambientale del Ministero dell’Ambiente) dal titolo: ” Il piombo nelle munizioni da caccia: problematiche e possibili soluzioni”. Per chi volesse saperne di più, 96 pagine illuminanti.